Forse è impossibile ascoltare Venezia incrostata degli ultimi cinquant’anni del passaggio di visitatori distratti, inopportuni, inconsapevoli. Pure se la città ha un suono comune a ciascun sestiere, avvolto intorno alle luci fioche dei lampioni di San Marco, certo, ma anche del buio di Castello e Sant’Elena, dei misteri di Dorsoduro, dei segreti di Cannaregio, dei crimini di Santa Marta e dei bordelli di Santa Croce. Un suono irrisolvibile, rinchiuso, che qui, inspiegabilmente, riappare.
Forse l’escamotage è l’abolizione delle inadatte terze vivaldiane, posticce e opportunistiche, forse l’ambiguità tonale che la rarefazione armonica genera, forse è lo sguardo disincantato e non à la page di un compositore onesto, conciso e pulitissimo che ha i mezzi per emanciparsi dai mercati più volgari e caciaroni. Un altro miracolo, questa colossale fiction priva di qualunque assioma standard, delle cattive abitudini considerate obbligatorie, della costrizione dello share e del consenso che pure arrivarono, e durarono un bel po’.
Parlare di Ennio Morricone è quasi impossibile. Talmente esteso il suo repertorio da superare perfino la completezza del suo vocabolario, talmente ampia la sua capacità lirica da superare la sua capacità di lavoro, incessante al punto da suggerire l’esistenza di una bottega, forse di una vera accademia, priva però di qualunque intento manieristico o autocelebrativo. Tale maestria è impiegata con la misura tipica di una provvidenziale autorità, frugale e senza il minimo spreco.
E’ questo il suono della città che ho abitato per tanti anni, ne riconosco pieghe ed inflessioni. Nemmeno mancano i riverberi delle prime ore del mattino a Pellestrina, dei profumi degli orti di Sant’Erasmo o delle brume estese intorno alle barene, in quelle poche ore del giorno in cui esse appaiono, continenti alla deriva nei sogni di un tempo che pare incapace di passare, che somiglia appunto di più al ciclo sottilissimo delle maree che a quello contabilizzato nelle necessità della produzione.