Per quanto si possa guardare alla storia del cinema di Federico Fellini come ad una storia di successo, rimangono molti angoli bui, inesplorati, a volte del tutto incompresi. E’ una lunga narrazione, la sua, preziosa di riflessioni sul miracolo, la magia, sulla memoria e sulla materia che il genere umano si lascia sfuggire, impoverendosi. La stessa storia è la storia della musica di Nino Rota, riassunta e definita da questa opera finissima e quasi ignota, la sua ultima.
E’ una storia di segreti, quella veneziana e dei suoi protagonisti maggiori. Una storia più o meno abilmente occultata, negletta, dimenticata ad arte. Qui sono raccolti molti dei suoni peculiari del clima lagunare, delle sue luminescenze impossibili da raccontare. Un tentativo riuscito, insieme a pochi altri di scansare l’indugio oleografico e stucchevole delle festicciole licenziose dei visitatori distratti, dei cultori dell’ovvio e dell’inessenziale.
Nemmeno la ricca produzione espansiva e liberatoria riuscirono a togliere questo film dalle secche dei tempi. Anni in cui Fellini soffriva molto della separazione progressiva tra la sua opera, la sua vita, ed i giovani che preferivano macerarsi nelle prosaiche brutture della protesta e della lotta armata, in un progressivo suicidio civile che mai lui riuscì a comprendere. Nino Rota è perfettamente al passo, memore dei grandi compositori milanesi di cui utilizza verbi e preposizioni.
Impossibile non citare Andrea Zanzotto, che aleggia inascoltato in quella affabulazione che l’ha reso immortale al mio cuore proprio qui, pur essendo egli superficialmente inudibile, ogni respiro è anche il suo. Impossibile non rieccheggino, nella mia mente, i colori ed i suoni delle corti sconte, dei ponti introvabili, delle cancellate apribili solo dall’interno, delle alcove cristalline e simboliche di una via, di una verità e di una vita che non è stato possibile mai divulgare.