Così come nella grande pittura di paesaggio dell’ottocento, in cui al panorama, appunto, viene attribuita tutta l’importanza tolta al prepotente soggetto, così nella musica di questi anni ci liberiamo dell’ingombrante protagonista, sia esso cantante o comunque solista. L’enfasi si sposta così tutta sulla prospettiva, per definizione cangiante, mutevole, del tutto dipendente dal punto di vista che, in questo caso, è d’ascolto.
Nulla rimane della mitologia tipica dello stile degli anni cinquanta, tutta fatta di roboanti personalità idolatrate. Nulla sopravvive dell’egomania tipica del bel canto, della formidabile potenza dei solisti del jazz o dei cantanti rock da stadio. Ora, davanti a noi si stende l’indistinta, inafferrabile ed elusiva foresta di suoni che si accumulano, anno dopo anno grazie a tecnologie sempre più potenti, invisibili, reticolate al punto da venir date per scontate.
Della tecnologia Dub non abbiamo parlato abbastanza, ancora non ci siamo addentrati nella scura arca di Lee “Scratch” Perry, nel caos exoterico di King Tubby, in quello elegante e vagamente più metafisico di Prince Far I. Vi presento quindi una di quelle che sono le conseguenze attualmente più estreme di quella selvaggia inclinazione, alla moda come pochi altri movimenti, sfuggente ed oscuro come nelle tradizioni migliori, qui da noi.
Aldilà delle tensioni premillennio di Tricky, di quelle aerofone e “cosmiche” dei DJ similOrb, l’attitudine allo sfondo qui prende il vizio delle ore piccole, affermandosi come nulla fosse nel mercato segreto e sottile dei veri flaneur, coloro che attraversata la notte con la nonchalance dei disadattati che guardano alle noie della giornata esibendo piccoli gesti di tolleranza. In questo oziosissimo mondo finanziario e ultranazionalista questa musica si mette di traverso, lanciando lampi di fuoco che incendiano ogni dato di fatto.