Fu una stagione ambigua, quella in cui quest’opera vide la luce. Sciami di sequenze elettroniche avvolgevano il pianeta, rendendoci vittime e carnefici di una cospirazione macchinistica senza precedenti. Non immuni dagli omaggi tecnologici (Roland in questo caso) i nostri due eroi affrontarono una dimensione epica da garage studio, una orchestrazione potente e complessa, portando la loro peculiare e coltissima eccentricità a livelli futuristici.
Pure, le avventure mainstream dei due erano ancora in pieno volo, ambedue capaci di riempire gli stadi. Solo, la necessità di una meditazione di minor impatto pubblico, e di conseguente molta maggior rilevanza interiore, era necessaria. Fiorì un impresa rilevantissima nella sua definitiva indipendenza: tanto slegata dalla major quanto dal gusto populistico, tanto mobile, piccola ed intelligente quanto singolare, importante, bellissima. Fu un esempio che chiunque poteva stentare a seguire, e seguito non ci fu.
Tranne che, in termini di economia di esercizio, con un buon anticipo di una decina d’anni, oggi questa dimensione ci appare singolarmente profetica. L’intreccio, squisitamente tecnico, forse, di due chitarre avvinghiate in un progetto di suono d’insieme pregno di senso comunitario (che King Crimson in quel momento processava altrimenti) la tensione elettronico del suono semplice, ma definito e chiarissimo, la dimensione pratica e quotidiana del piccolo studio personale, indicarono la forma delle cose a venire.
Scorre come un fiume, la composizione. Fripp tenderebbe a fornire la solida piattaforma ritmica ed armonica, utile al volo pindarico di Summers. L’altro, abilissimo nel colorare con acquerelli di matura personalità gli ambienti appena affrescati, rende leggerissima e contemporaneamente rilevante l’intera atmosfera. Un piccolo miracolo di collaborazione quasi estemporanea, mercè forse l’indubbia familiarità interna, nel tempo e nello spazio, dell’impressionante duo.
L’utopia, certificata e forse resa tale proprio dal meno scintillante seguito, luccica ancora sui miei scaffali, un po’ confusa, forse, dall’opposizione complementare con i più rigorosi Frippertronics di cui gli stessi sono carichi. La grande epopea del rock da stadio, nata con gli Hendrix ed i Clapton, finisce qui, in un certo senso definitivamente. Cause di forza maggiore finanziaria e pure politica ne sanciscono l’inopportunità. La speranza che il nuovo suono rock divenga praticabile e sensato deve moltissimo a questo schizzo per nulla minore.