Ogni compositore consapevole dipende dal suo ambiente. Pure egli mira ad emanciparsene, a mutarne le coordinate e le tessiture, a liberarne la potenza curandosi della struttura naturale, dell’ordito culturale, dei materiali ideologici che possano intasarne il respiro o viceversa, fluidificarne la linfa. Un compositore insomma poggia i suoi piedi nello stato delle cose, mentre la sua testa respira altre altezze.

Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, Luigi Nono, negli anni della ricostruzione dopo che la guerra aveva spazzato via ogni idea di Europa si misurarono con un ambiente devastato, con sentimenti confusi e disordinati i quali a loro volta avevano preso il posto di quelli cupi e micidiali che caratterizzavano il decennio a cavallo degli anni trenta e quaranta. Le loro opzioni erano poche.

Misurarsi con un cumulo di macerie così enorme non ha probabilmente precedenti, nella storia della cultura occidentale conosciuta come tale. La necessaria competenza svelta e mobile, nella sua dolorosa provvisorietà, nella lacerante sensazione di vuoto, si modellava sugli eventi. Essi presero delle decisioni, organizzarono un suono adatto, misurandosi con le speranze rimaste.

Organizzare il suono che essi sentivano era una azione che prescindeva da qualunque ipotesi romantica, così come dalle tentazioni illuministe. Era un suono poco condivisibile, per il pubblico generale, la musica prese una direzione inedita e inaspettata. Pure il suono del tempo si tradì: si immaginò un nuovo paesaggio, differente da quello nazionalista che aveva causato la disfatta colossale che si parava davanti agli occhi. La Germania si assumeva le proprie responsabilità davanti al mondo.