Il nastro magnetico non si limita a registrare una realtà, per quanto soggettiva e limitata, che esiste nel tempo e nello spazio. Nella pratica quotidiana di studio e sperimentazione, l’affastellarsi di tracce slegate nel tempo (e pure nello spazio) nella mimesi coordinata di uno spazio sonoro, è sempre presente. L’ipotesi di una tale condizione autopoietica è emersa ben presto, tra le necessità dei compositori, e non si tratta di una semplice questione ecologica. L’accumulo di tracce lineari, che implica un superamento della linearità stessa, genera un nuovo modo di sentire.

La necessità dei compositori e dei ricercatori, nel dopoguerra, sembra essere la ridefinizione dello strumento stesso, oltre che della sonorità, della tecnica esecutiva, dell’ambiente della composizione, della performance, della riproduzione. Dopo la distruzione fisica della Germania e dell’Italia, l’umiliazione della Francia e il generale senso di impotenza che pervade ogni accademia, i compositori si ispirano all’architettura della ricostruzione, ai nuovi edifici tecnici, ai materiali industriali, alla visione macchinista che è l’ultima epitome positivista. Iannis Xenakis è il più coinvolto da tutto ciò, e arriva ad integrare in modo perfetto la riproduzione del suono in uno spazio architettonico.

L’ambiente dello studio di registrazione è il luogo in cui ogni suono diventa elettronico, preparato a mutazioni di ogni ordine e grado, transformato in materia malleabile, estensibile nel tempo, adattabile a spazi artificiali, immaginari, inesistenti. Il centro dello studio di registrazione, per tanti anni, è stato il registratore a nastro, l’apparecchio attraverso il quale il suono eletronico si cristallizza, acquista spessore e realtà riproducibile. Non soltanto il registratore è il dispositivo più importante nelle mani del compositore elettronico: esso ha reso il compositore elettronico possibile.

Coincidentalmente, il registratore a nastro è stato usato in modo profondamente creativo fin dal suo apparire. Pierre Schaeffer ne intravide le colossali potenzialità in termini di montaggio, che Karlheinz Stockhausen adoperò per l’addizione illimitata di elementi elettronici primitivi, in modo completamente inedito ed affascinante. Ciascuna delle tecniche adoperate oggi in modo corrente, mima spesso l’operato lineare di un registratore a nastro, che così tanto è adatto al modo di procedere della mente, la quale ha bisogno di una narrativa lineare.

L’idea di lavorare con gli objects trouveé venne a Karkheinz Stockhausen, probabilmente, già mentre si affaccendava nello studio di Pierre Schaeffer, nei primissimi cinquanta. Schaeffer aveva una pratica di montatore di nastri per la radio, effetti sonori montati in una sequenza drammatica di supporto, Stockhausen ne apprese l’agilità sui nastri come fosse un modo di comporre perfettamente naturale. Il modo di composizione attraverso cut-ups, come avviene nel cinema, una banalità nei procedimenti odierni, emergeva lì per la prima volta.

Tornato a Colonia, si trovò in un gruppo che aspirava, anzichè mescolare e montare suoni naturali e industriali, all’assemblaggio di frammenti ottenuti con generatori elettronici, in sistesi additiva. Nel 1953, lo studio aveva a disposizione un solo generatore di onde sinusoidali, il che dette luogo ad un processo lento ed estenuante. Così emerse Gesang der Junglinge, nel quale la voce di un ragazzo si mescolava con il suono elettronico elementare, e che definiva tale suono in modo indimenticabile.

music: sylphides, ath, Belgium