“Forse che la finzione di un oggetto isolato implichi una sorta di assurdità, siccome tale oggetto ricava le proprie proprietà fisiche dalle relazioni che mantiene con tutti gli altri e deve tutte le proprie determinazioni, e di conseguenza la sua propria esistenza, al posto che occupa nell’universo intero”? Henry Bergson: Materia e Memoria, 1910
Claude E. Shannon, padre della teoria dell’informazione, il cui lavoro “La teoria matematica della comunicazione” è uno dei lavori più importanti negli annali del pensiero tecnologico, mostrò come un’algebra elaborata a metà del XIX secolo dal matematico britannico George Boole, (Algebra Booleana) potesse rappresentare il lavoro di switches e relays nei circuiti elettronici. Le implicazioni sono profonde. Egli definì il potenziale informativo in un sistema come la sua entropia, termine che in termodinamica indica la parte imprevedibile del processo, ciò che in mancanza di nozione sull’effetto globale si definisce rumore, o dispersione. Nessuna tecnologia dell’epoca poteva dimostrare i suoi teoremi, che vennero puntualmente adoperati all’avvento di circuiti integrati ad alta velocità, sufficentemente veloci da sfruttare la sua teoria dell’informazione. Ciascuno dei sistemi che raccolgono, elaborano o trasmettono informazioni in forma digitale si è modellato intorno a questa teoria, specie da quando la tecnologia è tornata al concetto, molto più vecchio, di connettività.
Proprio questa entropia, questo caotico processo di dispersione dei valori inutilizzati, rappresenta il terreno di ricerca più fertile su cui i compositori si avventurano. La definizione di rumore che spesso abbiamo utilizzato perde ogni connotazione negativa, chè solo l’incoscienza genera l’indististinzione. Nel cosiddetto rumore giace una speranza di vitalità colossale ed ignota. Ogni ambiguità deriva dall’uso del caso come pretesto di riferimento, quando invece il termine va chiarito una volta per tutte: che il caso esista o non esista è la vera discriminazione da affrontare. L’alternativa, per esempio, è immaginare l’ignoto che non possediamo i mezzi per decifrare, un enigma cifrato che non siamo in grado di decodificare, un insieme creativo che non possiamo comprendere. Possiamo immaginare un mondo in cui ciascun evento sia un miracolo, e misurarci con esso. Oppure possiamo immaginare che ogni chiave risieda in una intelligenza condivisa, in cui è la somma sinattica di un individuo molteplice a rendere leggibile la realtà. Un calcolo parallelo realizzato da una mente umana sommata, anziche frammentata.
Molta parte della composizione musicale cui veniamo esposti ogni giorno è il prodotto di un iperstrumento tutto contenuto in una stanza e organizzato da un individuo apparentemente molto isolato. Nella realtà lo scambio di visioni autoctone è attivo in una modalità vivissima ed estremamente feconda. Lo scambio di file semilavorati, in una connessione intelligente che va molto oltre le possibilità del singolo, che vive di premesse e di postfazioni intersecate in modo finissimo, appartiene molto di più al nostro modus operandi quotidiano che quello di qualunque gruppo musicale visto finora. L’interrelazione creativa non è mai stata veloce e precisa com’è ora ed ogni sinapsi, ogni nodo della rete, contribuisce in modo efficente ed efficace come mai è stato meglio. Le considerazioni su una intelligenza planetaria che presiede al nostro lavoro non sono una qualunque idea illuminista o sogno romantico, ma un definito modo di azione.
Lavoriamo incessantemente in una dimensione impersonale eppure intimissima, nella quale le nuance più sottili del suono tentano una armonizzazione che va al di là delle speranze più umane.
music: johann johannsson – virthulegu forsetar