Mi trovo davanti ad un silenzioso prato estivo. La linea degli alberi mi protegge dal mondo che non conosco, perchè la mia sottile agorafobia mi porta a privilegiare le aree contenute in questo modo, se non proprio gli spazi chiusi o (come desidererei nei miei sogni) quelli sotterranei. E’ un sentimento perfetto quello che provo a quest’ora, le dieci del mattino, mentre sono già avviato a completare l’intero lavoro della giornata, per me cominciato alle cinque, e che non ho ancora interrotto per la colazione. Il mio pensiero oggi va ai miei lavori mai completati, che si sono inariditi insieme alla passione che mi aveva portato ad incominciarli. Sono pensieri patetici quelli che ho mentre mi dirigo alla cucina per preparare pane e caffè, ma mai veri rimpianti.

Di tutte le persone che ho conosciuto, energetiche o patetiche che siano state, ricordo quelle che mi hanno insegnato come fare bene un lavoro: costruire un modello di apparecchio aliante, arrostire gli scampi sulla griglia leggerissima di fil di ferro, pizzicare le corde di acciaio della chitarra con il plettro. Ricordo le loro voci, sparse e rarefatte mentre accompagnavano i gesti, molto meno ricordo le parole dette. Sul fondo, ricordo benissimo i luoghi e gli ambienti in cui le istruzioni venivano impartite, così rilevanti nelle luci e nei colori. Ricordo i percorsi emotivi necessariamente compiuti per raggiungere quei luoghi, sempre staccati dalla routine, sempre in qualche modo impervi, utili a portare la mia mente ad un maggiore livello di attenzione.

L’aria è carica di onde inudibili. Sopra i flebili sospiri del vento sull’erba che appare per un momento, oltre al frinire sottile e continuo di grilli e cicale che cedono il posto gli uni alle altre, una miriade di onde soniche tempestano l’aria come raggi di luce, impercepibile solo se i mezzi di ascolto sono limitati, magari da una attitudine distratta, o dalla persuasione che del mondo abbiamo visto ed ascoltato tutto. Pure il sottile filo di rame, collegato a piccoli debolissimi circuiti di amplificazione elettronica elementare, la più arcaica e primitiva delle attrezzature radiofoniche, permetto di decifrare queste onde, a portare i suoni da esse contenute ad una definitiva udibilità. Come l’ape, la mosca e la zanzara che appaiono improvvisamente, queste onde appartengono, vivono e muovono in dimensioni diverse dalla mia, non solo nello spazio ma probabilmente anche nel tempo.

L’impermanenza del suono rende la memoria labile. Qualunque suono dura pochissimo, destinato a ripetersi mai più. Ciascun fraseggio è irrimediabilmente legato al suo tempo, nello spazio, chè mai più sarà lo stesso. Chiamiamo memoria ogni capacità rievocativa utile e ricostruire il sentimento che quel fraseggio ha ispirato, provocato, sostenuto. Ma nessuna memoria rende attuale ciò che accadde, nessuna ricostruzione sentimentale tiene conto di tutte le condizioni necessarie alla particolare evoluzione dinamica che ci colpì. Lavoriamo, in modo creativo e competente, per permettere l’estensione di un momento nel tempo, manipolando la natura in modo culturale. A perpetuare ciò che sarebbe passato rinnovandone l’essenza, in un canto di sirene spettrali che fluttui tra le diverse dimensioni della nostra esistenza, insieme a chi la condivide nel breve istante in cui le nostre diverse dimensioni collidono.