My feeling about silence is that the closer you focus down on it, to use a visual metaphor, the more you discover. There’s this paradox – the deeper you get into silence, the noisier it becomes.  David Toop

Nelle scuole di architettura, almeno dai primi anni settanta, si insegnava che l’architettura viene dall’architettura, che le considerazione tecniche tipiche della scienza delle costruzioni sono primarie ed autoreferenziali, che si costruisce all’ombra della storia, meglio se al riparo dai segreti e dai misteri che la storia non include, meglio se lontani dalle vanità della philosophia perennis e delle vere scienze umane. Questa inclinazione infantile e sciocca è diffusa ora in tutte le arti, al punto da renderle sterili e frustranti per l’apprendista: al punto che un giovane, laureato e certificato, si trova oggi facilmente, se in buona fede, nella totale immobilità.

La musica non viene dalla musica. Quando la musica risuona, la storia aspetta fuori. Con tutte le sue macchinazioni ed allusioni strumentali, il resoconto lineare sulla teleologia storica ideologicamente corrotta non ha niente a che vedere con le tessiture soniche universali, con le competenze metafisiche necessarie, semplicemente, per udire il suono autentico della realtà umana. Nelle grandi tradizioni tutto questo era ben chiaro fino a poco fa, in occidente risuona una specie di presenza spettrale, che pure è generata da una sapienza immortale, nella quale siamo tutti immersi, e per il contatto con la quale ci occorre una sola qualifica: la capacità di ascoltare con il cuore, ma anche con i piedi, e con le orecchie.

La musica emerge da un silenzio che non è l’assenza di suono. Ne è contenuto e prodotto un suono imperativo e necessario che deve assumere forma creata, in una incessante collusione fra potenza e sentimento, fra gli altri mondi e questo. La musica ha bisogno di spazio acustico in cui raccogliersi insieme ad esecutori ed ascoltatori, in un rito vitale ed erotico che ne rende possibile, solo per un momento, la transustanziazione in materia liquida, regolante menti e corpi che possono, sua mercè, partecipare alla grande ricreazione del mondo, alla costituzione del luogo in cui ciascun ascoltatore e ciascun esecutore sono uno solo.

Nella specifica indagine su questa materia, elusiva quanto priva di un vero supporto accademico, il lavoro di David Toop è imprescindibile. La sua competenza di musicista autentico è indiscussa; pure, la sua posizione erudita ed eclettica lo pone in una dimensione a sè, in cui la critica scolastica è soltanto uno degli strumenti utilizzati, insieme ad una tecnologia d’ascolto finissima ed imprendibile per esempio, insieme ad una profondità sentimentale mai oleografica, mai assodata. Possiamo comprendere i modi di Toop solo se affondiamo i denti in queste oscure materie che lui affronta, però, non in una qualche dimensione storica. Dobbiamo accettare, al contrario, una dimensione in cui ogni giudizio è sospeso.

Così, il silenzio si introduce da sè. Lo incontriamo nel teatro di Beckett, così come nel racconto letterario da Dickens a Virginia Woolf, nei dipinti di Piero della Francesca su, su fino alle rappresentazioni di mondi immateriali anonime ed ambigue, oppure a Rembrant e Francis Bacon. Ed è un silenzio carico di suono, invece, quello che ci troviamo di fronte nel nostro affascinato percorso. Ne constatiamo una presenza precisa, pure se al confine delle dimensioni conosciute, nelle angolazioni ortografiche come nelle prospettive più ardite e prive di qualunque disordine. Avvertiamo il silenzio delle grandi cattedrali alchemiche, dei labirinti Borgesiani, dei sentieri, avventurosi e salubri che portano alle vette della mente umana.