Un progetto riferito così esplicitamente ad un certo luogo in un certo momento ha un suo carattere effimero che sembra poter spartire poco con l’architettura: l’arte della configurazione umana nel paesaggio, dell’affermazione della volontà sulla natura. In effetti l’architettura antica, in India come da noi, aveva una piena consapevolezza della propria influenza su un paesaggio molto più ampio e complesso di un dato sito.

Non parliamo poi del tempo, esprimibile soltanto in una dimensione molto poco familiare per noi. L’architettura antica esprimeva sè stessa nei secoli, quando non addirittura nei millenni. Generazioni intere, ed i loro successori a volte, erano impegnate nella costruzione sacra, nella immaginazione di luoghi e costruzioni che finivano per definire dinastie, imperi, ere.

Paul Schutze è un campione dello spaesamento, quella condizione dell’anima che, in sofferenza per l’esistenza dei confini, non può comprenderne la natura politica, storica, economica, militare. Se il mondo fosse un solo e definito modo di fare le cose non ci sarebbero molti luoghi come l’osservatorio di Delhi, costruito nel diciottesimo secolo ed in rovina come un sito romano, carico di misteriose strutture inspiegabili, gettate in un vuoto metafisico e pure profondamente scientifico.

Qui ci si prende il modo di abitarle, attraversarle, respirarle e commentarle, con una voce femminile che esprime l’incanto di un luogo che non appartiene soltanto ad un mondo particolare o speciale, ma a quello che tutti noi, consapevoli o meno, abbiamo in comune.