Graeme Revell, neozelandese a Londra destinato ad una brillante carriera a Hollywood, sconvolto da una esperienza teorica e pratica in un manicomio, diede vita a questa formazione nel clima industriale dei primissimi anni ottanta insieme a Neil Hill. Stabilito più tardi il suo ancora attuale rapporto con Brian Williams e Derek Thompson giunse a questo fondamentale esito, carico di suggestioni hyperorchestrali, nel decennio successivo, quando il verbo ambientale ottenne la sua massima corrispondenza con il pubblico.

La qualità compositiva del lavoro di Revell è di primordine ed egli è un fattore di congiunzione con dimensioni meno radicali e più mainstream non da poco. E’ riuscito a mantenere questa qualità attraversando ognuna delle insidie disneyane che le relazioni di un compositore a Hollywood implicano. Rimane, non soltanto nel ricordo di questa brillante composizione articolata e aperta, una consistenza ed un potente arsenale di indicazioni oblique che rendono il suo lavoro unico, oltre che estremamente originale.

E’ abbastanza ovvio che una possibile evoluzione dell’esperienza dell’immaginazione di fondali vada verso il cinema. Molta parte della produzione primaria del genere è priva di un vero e proprio soggetto e può funzionare molto bene come contesto per le affermazioni altrui. Molto spesso, ugualmente, questo processo sembra più deviante che funzionale, come uno spreco di opportunità che appare colossale. Il punto dell’intero progetto ambient è includere la responsabilità dell’ascoltatore, portarlo a completare il quadro.

Ipotesi molto affascinante è quella in cui il semplice ascoltatore isolato, portato a riempire gli immensi spazi vuoti sentimentali che questo approccio compositivo genera, entra in una qualche sorta di ascolto attivo, e permette che sia la sua presenza a completare il quadro, in una evoluzione progressivamente sempre più matura ed in cui finalmente l’imposizione drammatica cessa di essere indotta da un autore troppo imperativo.