Christian Fennesz esercita l’arte del rumore. Ne ha tratto una intera disciplina, varia e musicalissima, dimostrando una volta per tutte quanto abbiamo bisogno di considerare certo materiale imprudentemente scartato come una fonte rinnovata di nutrimento. Il suo abuso della sostanza acustica è talmente poetico e delicato da lasciarci completamente senza fiato, in questi piccoli teatri in cui abbiamo modo di osservarlo all’opera.
La fragilità e la sfuggevolezza della musica di questo austriaco incognito ha davvero tratti sublimi. L’indifferenza per l’accademia e la leggerezza di tocco sono una tale consolazione, in questi tempi in cui ci troviamo ad essere inadatti a quasi tutto. Tanto abbiamo bisogno di una chiara nozione del punto di partenza nel nostro percorso, quanto di una mappa scritta in una lingua completamente nuova, che ci porterà ovunque possiamo andare.
Lo sanno bene i suoi astuti sodali che lo invitano e lo coprono di doni:da Ryuichi Sakamoto a Jim O’Rourke a David Sylvian. Possiede strumenti di decodifica del suono, il nostro, e sa adoperarli, rendendo udibili e leggibili le coordinate che stavamo cercando. Qualità giovanili le sue, senz’altro, ma anche maestrìe radicate in un’era elusiva per chiunque creda di sapere il fatto suo e di avere orecchie smaliziate.
La trasparente ragnatela digitale, cospirata in aerei laptops, in questi giorni è la definizione del nostro ambiente più reale. Come in un magma esotico di filamenti e vuoti possiamo aspirare soltanto a lasciarci trasportare, accettando la nostra balbuzie e la nostra zoppicante andatura come il segno della volontà di adattamento, non come limite ma come necessario bozzolo evolutivo. Suoni e figure, che altro volete sapere?