E’ un sopravvissuto, David Sylvian, passato attraverso l’inferno stilistico degli anni ottanta peggiori, censito ed accettato come il più bello dei cantanti, e non deve essere stato facile emanciparsi da quelle follie. Ma il suo era un buon gruppo fin dall’inizio, le trappole del marketing non lo distrussero, i suoi compagni valevano e anche loro sono arrivati bene fino ad oggi. Evidentemente ciò che conta, nel lavoro di un artista, sta sempre dietro alle apparenze mondane. Io per me, se lo avessi notato prima di questo disco, lo avrei detestato.
Invece uscì Brilliant Trees, noblesse oblige. Il giovane utilizzò la sua evidentemente notevole forza contrattuale per procurarsi un contesto favoloso in termini di partecipazioni e collaborazioni. Scrisse pezzi luccicanti e li arrangiò in modo splendido, oltre che appropriato ed innovativo, quindi ci spedì un nuovo oggetto di riferimento per gli anni a venire, si aggiunse al catalogo delle grandi attese, cui da allora non ha mai mancato di stare all’altezza. E’ sempre bello capire che abbiamo diretto bene la nostra attenzione.
La classe di questo bel giovanotto si vede nel modo migliore sul palco, abbastanza inaspettatamente, data la sua importante disinvoltura in studio, la sua competenza tecnologica, la sua inclinazione introversa. Non sfuggì a Robert Fripp l’innata prestanza a tenere la scena, il carisma sottile ma forte: il loro consorzio chiese ed ottenne molto, come di solito accade con il magistrale guerriero elettronico, portando segnali di rilevanza cosmica sui palchi delle migliori città. Perfino gli offrì di chiamare la banda King Crimson: il nostro, fermamente, declinò.
Nondimeno, insieme attraversarono i confini del formato pop, insieme ad una sezione molto più che ritmica: nientedimeno che Trey Gunn e Pat Mastellotto, insieme all’apporto confortante e sostenuto del mio occulto eroe favorito in ogni tempo: Michael Brook. Ebbi modo di incontrarli più volte, in quei primi anni novanta in cui la rinascita della musica astratta, pop quanto pretenziosa, affollava platee e gallerie. Ne ottenni illuminazioni sensazionali, corroborazioni potenti e complete, ogni godimento idiota venne ricondotto ai corretti parametri della musica nobile, ancora una volta.
Rimane illuminato ed innovativo, in questi anni finali del nostro ciclo di civilizzazione, pure se in qualche modo riservato, il suo contributo alla definizione linguistica della nostra propria realtà. Poche parole, e ancora meno strutture compositive, nella sua attitudine pubblica: singole, spezzettate frasi compongono le sue canzoni. La rilevanza della sua voce appare sempre maggiore, nella realtà, di quanto ci saremmo mai potuti lecitamente aspettare. Noi abbiamo bisogno di una canzone adatta a questi tempi incomprensibili. David Sylvian ce ne procura una nuova.
L’ideale dell’improvvisazione qualificata, dell’affermazione istantanea e corretta, questo si insegue da allora nel suo lavoro. Attraverso immense difficoltà di soddisfazione dei fedeli, così come di cristallizzazione di oggetti certi e credibili, l’impresa procede: vecchi nobilissimi jazzisti di sicurissima ascendenza lo ascoltano, avventurieri di un tempo futuro si fermano ad aspettarlo. E’ un bel modo di passare i pomeriggi, ascoltare la versione di David Sylvian: il vino adatto è il Sassicaia, cioccolata e formaggio fermentato aiutano.