Il conforto e la compiacenza del comportamento meccanico, garantito e riproducibile perciò affidabile e “professionale”, ci conduce fuori dalle aree dell’umanità creativa e ricreativa, chè le attività umane si svolgono in un azzardo che solo garantisce la presenza della vita (oso dirlo?) autentica. Anche se gli equivoci e le distorsioni sono molte, sono due gli impulsi umani fondamentali: la disciplina e l’indisciplina. Preferisco chiarire che l’unica disciplina che conosco è l’autodisciplina e che questa esiste solo quando si sia conservato l’uso di una indisciplina praticabile.
Nondimeno, la verità è che le macchine non funzionano mai perfettamente, nessuna regolamentazione meccanica ha la minima speranza di reggersi a lungo. Quella che chiamiamo componente umana è in realtà una nozione universale, proprio perchè è l’azzardo il principio su cui poggiano gli stessi moti celesti, le orbitazioni ellittiche, in un potenziale ordine sempre sull’orlo del disfacimento, in un caos attuale che in un solo gesto prende forma e perfino simmetria. Gli umani stanno in mezzo a reggere le sorti conservative dell’opera creativa fondamentale.
Solo i nostri migliori artisti hanno la capacità di dirigere sistemi meccanici complessi, nel tempo. Solo l’azione musicale perfetta può sostenerne carichi e difetti, dirigendone l’azione e mantenendo gli equilibri. La disciplina necessaria è una disciplina artistica, non ingegneristica, l’indisciplina necessaria è una indisciplina culturale, niente affatto fondata sulla incapacità o sulla mancanza di fede, ma piuttosto su di un senso dell’avventura maturo e responsabile. L’equilibrio continuo fra le due è il vero carattere della qualità artistica.
Alla fine degli anni settanta del secolo scorso, decennio misterioso e del tutto incomprensibile anche per coloro che l’hanno abitato da adulti, gli impulsi più disciplinati e quelli all’opposto, che lo erano meno, erano rappresentati in senso sonoro da due colonne portanti: da una parte lo sperimentalismo robotico, rappresentato dai Neu, dai Cluster, soprattutto dai Kraftwerk a Colonia. Dall’altra la formidabile e potentissima comunità soul, rappresentata da James Brown, Sly Stone, Jimi Hendryx in America e da King Sunny Adè e Fela Anikulapo Kuti in Africa.
Nell’immaginario sincretico di David Byrne e Brian Eno si realizzò questa indefinibile opera, che mi pareva dovesse essere imprescindibile all’epoca per quanti credessero davvero ad un futuro per la musica occidentale, insieme all’altro baluardo che la coppia registrò insieme ad un gruppo esteso nel periodo immediatamente successivo. Ne emerse un suono nuovo, riconoscibile per i neri così come per i britannici, che ballavano sconvolti. In quello scuro inverno londinese in cui venni a trovarmi lo shock fu grande, la grande formazione con due bassi elettrici si esibì all’Odeon di Hammersmith e niente fu più lo stesso.
Singolare quanto la connessione fra le due importanti personalità, così differenti in apparenza, siano rimaste vive ed importanti durante tutti i trent’anni che separano le due opere firmate insieme. Singolare quanto l’accurata concertazione di eventi della prima corrisponda ad una conversazione remota e ben distribuita nella seconda. Differenti gli esiti, come sono differenti i tempi, eppure priva di vanità la forma, allora come ora, priva di qualunque arroganza e ugualmente carica di benefici per ogni ascoltatore in buona fede, in una continuità consolante.
[…] abbastanza vecchio da aver atteso l’uscita di ogni album di Brian Eno. Abbastanza attento da sapere come ciascuno di essi sia stato accolto con freddezza e con una certa […]