Alla fine degli anni ottanta i non-musicisti avevano preso il sopravvento nella produzione di musica da ballare. Nei Clubs di tutto il mondo imperavano figure nuove, i discendenti dei diskjockey, che attraverso l’esperienza rap in cui rivestivano spesso il ruolo di amministratori unici del beat avevano conquistato fama ed autorevolezza. L’analisi è semplice: se la totalità della musica cui veniamo esposti è registrata, che differenza c’è tra uno strumentista certificato ed un tecnologo, data come ovvia la stessa musicalità?

Prima di questo disco però l’azione era confinata ai club, a qualche radio, agli addetti ai lavori. Qui invece tutto muta: prendersi un pezzo già registrato, oscuro ma anche noto, manipolarlo, stirarlo un po’, riconfezionarlo e ricontestualizzarlo, data una sufficente qualità tecnica ora disponibile, è una pratica che non distingue più David Gilmour da Alex Patterson, ambedue ci possono provvedere di una atmosfera sognante, lirica, perfetta per il rilassamento auspicabile dei giovanotti che si preparano al millennio nuovo.

La tecnica va ben oltre la rielaborazione di materiale familiare ed amatissimo. Destrutturalizzando la materia in maniera microscopica diventa facilmente possibile incorporare ogni genere di elemento nuovo, dai suoni dell’ambiente al rumore puro, dai cori pigmei ad un bruciante sassofono soul. Ormai il via è stato dato, e nulla può più tornare al suo posto, da qui c’è un fiorire di generi musicali più che di esibizioni virtuose, ogni nuovo disco si sposta in una direzione inedita, pena la noia e l’oscurità. Il rinascimento londinese della prima metà degli anni novanta deve moltissimo a questi attivissimi araldi del riciclo.