La definizione di un centro di cultura, rispetto ad un margine o ad un livello inferiore, serve a soddisfare la primaria necessità di credere di essere dalla parte giusta. In mancanza di tali coordinate il mercato dell’arte cessa, cessano perlomeno ad essere tali i baluardi di tale mercato. Per mantenere il mercato dell’arte occorre attribuire un prezzo finanziario al prodotto, che deve necessariamente essere definito come giusto.

Se il petrolio, l’oro o il succo di arancia surgelato hanno una attribuzione di valore abbastanza oggettiva data la praticabilità della produzione stoccata e data la fortissima domanda del mercato in relazione all’offerta, non possiamo fare lo stesso con un’opera d’arte. Meglio: noi non possiamo, ma mercanti, critici e collezionisti d’arte possono, e lo fanno. La definizione di valore finanziario è quindi l’inverso di quella di valore culturale, se l’oggetto esclusivo è per definizione il meno condiviso.

Nemmeno è rilevante la considerazione per cui siano necessarie maggiori abilità, strumenti e conoscenza per realizzare la “Madonna delle rocce”, un album di Madonna, o le rocce di Joseph Beuys, per fare esempi di oggetti piuttosto tangibili. Che l’uno contenga maggior valore d’arte dell’altro non è affatto dovuto a queste implicite abilità e tale idea, quindi, non fa altro che generare una confusione di cui non abbiamo più bisogno.

La difficoltà con il nostro centro è che non ce n’è uno solo. Ci sono certamente futuri centri auspicabili, altri da prevenire con fermezza, non ci resta che trovare un accordo sui primi come sui secondi, e potremo agire. La fluidità dell’arte è la stessa della struttura sociale, della scala di valori anche gerarchici. Il Valore di un’opera d’arte non è però necessariamente quello stabilito da un mercato dell’arte che difende l’esclusiva e ferma definizione di ciò che è alto o basso.