Lo confesso: Robbie Robertson per me non è la solita star che ammiro in relazione ad uno speciale contesto storico di pur ampia rilevanza, non è solo il genio matematico da tutti indicato come pilastro della grande tradizione immaginaria americana. E’ invece l’esempio più eclatante, più solido ed autorevole della forza di ogni struttura profonda, che muove e respira dietro alle innovazioni creative, sostenendole.

Capo della Band, responsabile di una portanza sonora ancora inconprensibilmente negletta, che resse e giustificò Bob Dylan nella prima coraggiosa avventura impopolare che egli intraprese; vecchio lupo di una generazione culturale oggetto di esclusione ed emarginazione molto prima che eroe di facili esiti commerciali, l’ammirazione che suscita il suo nome negli elevati circoli della Greater Americana, la musica antica più autentica e profonda negli Stati Uniti, appare qui come l’icona meglio presentabile di un intero modo di vivere. 

Nella costruzione del suono di respiro cosmico che ha riempito il nostro pantheon, pochi sono gli alfieri principali: se Smokey Robinson ha piantato il seme fondamentale del formato pop, se John Lennon ne ha fissato coordinate e moduli, Robbie Robertson ha cristallizzato il suono della chitarra elettrica universale, principale contributo timbrico alla rifinitura continua di ogni qualsiasi epoca sonora contemporanea.

In questo montato, storicamente corretto e merceologicamente indipendente, fiorisce il senso del documentario di cui abbiamo bisogno: quello che lascia lo spazio alla realtà vera dei musicisti che inseguono il sogno di un insieme orchestrale organico e pulsante. Quel racconto, realista e onirico insieme, che può sostenere il nostro illimitato bisogno di ricostruire, ogni singolo giorno, i nostri motivi per godere della vita com’è.