L’intero senso del documentario musicale deve risiedere in una sorta di didascalia didattica, dalla quale possiamo apprendere l’esistenza di un moto, più o meno concluso, all’interno del quale una trasformazione rilevante per tutti noi è avvenuta.
Dalla prima apparizione di Dylan a Newport, spaurito ed arruffato, all’ultima qui documentata, sicuro e determinato, potrebbero essere passati decenni: invece tutto si è svolto in una stagione brevissima. Questo processo è incomprensibile ed incredibile, finchè non lo vediamo realizzarsi qui, finalmente davanti ai nostri occhi.
Ogni giovinotto di belle speranze dovrebbe essere esposto a questo spettacolo. Cosa può aver reso questo buffo e timido ragazzo, trasferito dal gelido Minnesota ad una ancora più gelida NY in cerca di mitologie beat, un disinvolto e presuntuoso leader di una band rilevantissima? Il consenso popolare certo, le ottime compagnie certo, le lezioni e l’esempio di autentici maestri, ma poi?
Dylan è stato esposto alla più formidabile macchina di produzione che l’occidente abbia conosciuto dopo Hollywood: il Village dei primi anni sessanta era sconvolto da una energia che mai potrebbe più ripetersi nello stesso occidente. Guardarlo oggi, potente e dolcissimo come Scorsese, altrove, ce l’ha fatto vedere, sarebbe indecifrabile senza questa eccezzionale fotografia rara e finora riservata. Guardate l’aspetto del grande futuro, mentre è ancora irriconoscibile.
[…] davanti a due o tremila persone e ci siamo quasi. Ma non ho intenzione di occuparmi del lavoro di Bob Dylan per il bene dell’umanità io, non posso chiarire la sua funzione antropologica per la […]