Difficile separare le forme dal contenuto con George Ivan Morrison, così come i modi dalla consistenza etica. Un brutto carattere, mi dicono, ma con un accesso alla musica autentica privilegiato quanto rude.
L’esercizio è non lasciarsi andare al fascino di una voce che da Moshe Allison, da Mahalia Jackson ha tratto il sentimento di una umanità negletta, bistrattata e dimenticata. Occorre mantenere una certa postura emotiva qui, al fine di gustare ogni altro ingrediente.
La ineccepibile quanto originale efficenza poetica per esempio. La profonda capacità di integrare in questa musica pop, in questo Rythm’n’blues non adulterato, la limpida visione letteraria della gente della sua isola. La luccicante gioia di vivere, magari un po’ occulta, magari non chiassosa, epperò utile ed importante.
Ma in questo disco in particolare avviene uno slittamento che contiene in sè qualcosa di trascendentale. Come sappiamo, perchè ce l’ha raccontato qualche disco più in là, il nostro ha preferito prendere le distanze da scuole spirituali e neodogmi troppo personali: troviamo qui invece una dimensione mistica di una purezza particolare, come una aspirazione di qualità superiore alla realizzazione.
Il suono di Van Morrison è imprescindibile, oggi molto più che nel 1974 o 1980, perchè poggiato su basi di esecuzione, oltre che di composizione, al di fuori di ogni modello industriale, pur in mezzo ad ogni tipo di seduzione industriale. Attraversa il mondo questo suono, senza mai appartenere al mondo.