La tremante, malinconica gioia delle migliori opere tedesche del decennio precedente prende corpo e disinvoltura in questa california sospesa e struggente. La derivazione evidente non pregiudica la bellezza e la credibilità di questa operazione ingenua e voluttuaria, dimostrandone l’opportunità.

Roach è parte della prima generazione new age, sospetta e discutibile, ma se ne emancipa in fretta, in particolare con questo album che infatti non passò inosservato fra gli osservatori meno distratti. Assunto per questo a portabandiera di un movimento molto prolifico per quanto isolato e negletto, il suo lavoro riverbera attraverso l’intero operato di Robert Rich, o Vidna Obmana.

Le tessiture Shulze, piegate e modellate con una certa eleganza, trovano qui uno sviluppo superiore ed intrigante. Modello per molte successive immaginazioni, la qualità del timbro sintetico compie un passo notevole, affermando per i successivi vent’anni il canone di impiego dei generatori elettronici meno sofisticati e hollywoodiani.

Le meditazioni desertiche di Roach appaiono oggi come la fonte d’ispirazione primaria nella ininterrotta ridefinizione del soundscape americano. La sua longevità artistica, sostenuta da diversi episodi successivi a questo, ha permesso la produzione continua e progressiva di contributi rilenvantissimi per il sostentamento della grande tradizione americana.