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Nel 1925 la registrazione elettrica offrì una nuova possibilità. Il musicista poteva farsi oggetto del microfono così come il grande attore si faceva oggetto della cinepresa; poteva incantare con la sua interiorità. Invece di porgersi all’ascoltatore, questo tipo di artista sembrava ignorarlo, finendo per sedurlo. Il principio che per farsi udire meglio bisogna sussurrare non serve a niente in una sala profonda cinquanta metri, ma serve molto invece in uno studio di registrazione. Glenn Gould lo applicò in modo eccellente: nei suoi dischi sembrava suonare soltanto per sé stesso.

Quello di Gould è uno strumento, il pianoforte, che sfruttato al meglio può essere tendenzialmente proiettivo, ma molti lo suonano anche solo per sé stessi. L’interiorità quindi viene più naturale a un pianista. L’immagine è quella di Bill Evans curvo sulla sua tastiera al Village Vanguard, un immagine che l’atmosfera meditativa dei suoi dischi evoca immediatamente. Ma anche Miles Davis, con lo strumento più proiettivo in assoluto, sembra suonare solo per sé stesso, al massimo per i musicisti.

Negli anni venti regna una tradizione proiettiva cresciuta nei teatri d’opera e negli ambienti del Vaudeville, favorita dalla registrazione acustica. Accanto ad essa sopravvive una tradizione più quieta, presente nella musica folk e in misura più debole nella musica da camera. Una tradizione che con l’avvento della registrazione elettrica vide una grande e creativa fioritura, soprattutto nella musica leggera e nel jazz, e soprattutto quando Billie Holiday, Bing Crosby e Fred Astaire insegnarono ai cantanti a rendersi oggetto del microfono.