Alifi, my larder. Sapete distinguere un uomo giusto? Guardate la faccia di chi distrattamente, come fosse una visita di cortesia, si fa trovare in studio quando Robert Wyatt registra. Osservate attentamente anche queste buffe coperte lievemente redatte dalla inseparabile moglie, la deliziosa Alfie che incarna almeno la metà di ciò che vediamo quando guardiamo in questa direzione. Io amo Robert Wyatt, lo amo quanto lo amano Brian Eno, Paul Weller, Cristina Donà.

Non ci sono grandi misteri a proposito della qualità musicale di questo batterista diventato cantante diventato organista diventato trombettista. Quando la fluenza melodica raggiunge questa purezza e questa essenzialità pare proprio che non ci si debba più occupare d’altro, pare d’improvviso che ogni ragionamento sulla tecnica compositiva più opportuna si riduca al pianto dei bambini o alle canzoni delle mamme.

L’umanità di Robert Wyatt è sempre stata tutta lì, anche sull’improbabile seggiolino da percussionista, anche con tutte le maschere psichedeliche addosso, in mezzo agli equivoci di un Inghilterra Wilsoniana, alle delizie di Canterbury, la più bella città del mondo. Ha nutrito schiere di aspiranti, questa umanità, da Nick Mason a David Allen, a Kevin Ayers, destinati, come gli allievi di Miles, a piccole cose infinite.

A me non importa molto del pensiero di Wyatt, delle mille idiosincrasie che lo distinguono, io amo il suo suono. Lo considero uno dei dieci cantanti bianchi davvero rilevanti nel secolo passato, considero la sua tecnica di ascolto e revisione dei classici come materia d’insegnamento obbligatoria nei licei, nelle scuole di economia come di psichiatria, nozioni necessarie per avere accesso alle commissioni di stato.