Non sto mica qui a trascinare nostalgie, io. Mi occupo invece di criminali scancellazioni, occultate attraverso la celebrazioni di mitologie irrisorie, perpetrate da critici ignoranti, giornalisti intrigati, un pubblico distratto dagli eroi della chitarra gigante. Mentre la musica aggira il bon ton di ogni epoca e invade di gioia animi e menti, i tycoon allarmati mirano all’integrazione del dissenso, all’occultamento di alcuni cadaveri nei loro capaci armadi ed alla esposizione forzata di altri.

Il giovane e brillante Hancock non ha mai avuto grandi rivendicazioni, il suo infantile saltellare attraverso le forme e le strutture ed i “generi” gli ha prodotto rendite decenti, tanto che questi esperimenti arrivano fino a noi facilmente e possono agilmente perpetuarsi. Onore al merito. 

La storia di Hancock è una storia di successo, per molti motivi, ed è una storia che essendo un buon esempio per i giovani andrebbe sfrondata dei mille equivoci, malintesi e alterazioni che contiene. L’arco in questi anni è diventato abbastanza ampio per poterlo fare e si comincia da qui. Non sono i primi balbettamenti di un timido esordiente pieno di talento, non sono le eccessive estemporizzazioni dell’enfant prodige protetto da Re Davis, è invece un affermazione di valore inconsueto ed imprescindibile, fatta con i mezzi più abili ed intelligenti disponibili in quei giorni.

Dovremmo fermarci a parlare della tecnica impressionista, degli accordi aperti e sospesi presi da Evans (e dal Re, in senso maiestatico), del Funk innovativo ed erotico che seguì, della perfetta sintonia con Laswell negli anni ottanta ed io invece mi assumo la responsabilità di partire da qui, dalle immagini costruite insieme al Dr. Gleeson, alle forti e seducenti e non strutturate composizioni sulla rete del neonato studio di registrazione dal numero illimitato di tracce. Perchè sono le più utili, eppure le più avanzate.