L’abitudine, del tutto innaturale, di ascoltare dischi nella pace della nostra cameretta, abitudine che comprensibilmente si è estinta del tutto per le generazioni successive alla mia, consiste di qualche cosa di più dell’intrattenimento, della spensierata immersione nel film immaginato da qualcun’altro. Non ho in mente contenuti e messaggi, non poso nemmeno lo sguardo sull’engagement morale e politico. Penso solo che un disco riuscito, uno che si possa ascoltare più volte, magari trent’anni dopo la prima volta, non sia solo la registrazione filologica di un’esperienza, ma sia una esperienza in sè, esso stesso.
Una completa esperienza di gioia, raccolta e raccontata bene, a comprenderne il cuore oltre che le ragioni, ha carattere universale. Essa provoca riverberi sentimentali oltre la sua epoca, ricrea ovunque il sentimento di vita e pace che l’ha generata, funzionale alla ricostruzione del nostro patrimonio umano, quello che occorre per amare la vita sulla terra, qui, ora.
Questo George Ivan Morrison, Irlandese scolpito nel granito e nel muschio, ha salvato il mio proprio sentimento della gioia più di una volta, permettendomi, giovanetto, di ritrovare sempre la strada perduta. Ragionare su di lui mi è difficile, essendo che il debito rimesso è molto grosso, che è un Santo nemmeno Cattolico nè Romano, che bisogna vederlo ma poi basta, come madre Teresa, come Tenzin Gyatso che sono impegnati a salvare la parte più povera di noi stessi.
I Santi Irlandesi si distinguono per scontrosità e laconicità, così diversi da questi Santi Italiani che sono illustrati come modesti e un po’ smarriti a causa del clima favorevole, e devono lavorare molto di più per affermarsi e trovare il sostegno necessario. Ma infine, quando vengono incoronati, possono trasmetterci un modo di affrontare il disagio dell’esistenza consapevole molto più pratico ed utilizzabile, con un costo irrisorio, nel confortevole rifugio della nostra cameretta.