A volte ci pare che per comporre musica ci sia bisogno di un grande vocabolario. La corretta articolazione dei linguaggi del passato in particolare ci sembra una capacità imprescindibile, a garantire una continuità storica, culturale ideologica che vogliamo mantenere. Tutto questo è reale soltanto in parte, in effetti la fluenza musicale si poggia su basi che non sono storiche, per quanto la cultura sia elemento rilevante e l’ideologia quasi inevitabile, specie dal punto di vista psicologico.

La composizione, anche quella istantanea, è l’ordine che portiamo in ciò che sentiamo, non per avere necessariamente una ragione, ma proprio a favorire la praticabilità dell’ascolto. Va cercata l’esperienza di una atmosfera che deve essere utile, chiarificatrice, conciliante, anche quando la necessità e la realtà implicano un approccio più scuro, più inquietante e sinistro.

David Darling utilizza da molti anni un vocabolario particolarmente esteso, sia in termini di panorama compositivo, di struttura grammaticale, che in termini di suono, di timbro, grazie all’amplificazione, a strumenti con un numero di corde maggiore del solito, ad una tecnica di arco e di pizzicato che appare estendersi sempre. Qui mi pare, nella tensione verso soundscapes inediti ed illuminanti, si trovi sicuramente un apice.

Se la motivazione ad appropriarsi di una tecnica così poco evidentemente limitata fosse oscura, qui si trovano tutte le spiegazioni del caso. La risonanza del violoncello è portata all’inimmaginabile, come in una dotazione di pedali ad uso continuum che non esistono in natura, come alla costruzione armonica per strati, Bach e Coltrane, e Fripp e Eno, in una estensione nordica e piana resa immune dalla desolazione, dal gelo.