Quando l’immenso Nusrat Fateh Alì Kahn apparve sulla scena occidentale, all’inizio degli anni ottanta, non c’era una nozione del canto Qawwali, la forma dell’Islam pakistano fortemente connessa anche con la musicalità del West India e con il canto Carnatico. Non c’erano necessariamente le associazioni che emergono nel caso si creda di sapere già di che cosa si tratti. Gli ascoltatori riconobbero la qualità in gioco senza pregiudizi, l’ascolto estatico poteva avere luogo anche senza la preparazione ordinaria. Perchè Nusrat non era solo un Cantante Musulmano e Pakistano ma il veicolo disciplinato della voce di D.o.
Nessuno resistette, essere esposti all’ascolto della sua voce direttamente generava tutto ciò che si può auspicare, da ogni parte, nella partecipazione ad un evento sacrificale, in cui le categorie saltano, l’esperienza è diretta, la storia svanisce come le ombre in una caverna.
Altra cosa è realizzare un disco che superi il momento, aggiungere una struttura memorabile senza togliere eccessivamente forza e calore all’esperienza, contenere la straripante energia generata e darle una forma, un contesto, supporto e comprensibilità. Nessuno era più preparato di Michael Brook in quegli anni, la sua lunga esperienza con Jon Hassell, ma anche con Brian Eno, gli avevano già fornito l’orecchio, il cuore, e pure la dotazione tecnologica sufficiente per sopportare l’incarico e permetterci di ricordare la presenza di Nusrat senza soffrire troppo della sua scomparsa.
[…] Ustad Nusrat Fateh Ali Khan in persona è stato un onore che ci ha permesso di intuire la grandezza di un popolo fra i più […]